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9 Agosto



Alina è una ragazza di origini rom che vive da anni a Parigi. Rientrata nel campo dei genitori, nei pressi di Cagliari, incontra il commissario di polizia della città, a cui è stata affidata l'indagine su un caso di rapimento interno al campo. Tra i due nasce un'amicizia dapprima guardinga poi sempre più stretta. In cambio della sua collaborazione alle indagini, Alina chiede al commissario di non limitarsi a stare ai bordi della sua comunità ma di conoscerla dall'interno, allenando un gruppo di piccoli calciatori.
Si potrebbe credere che il regista si nasconda dietro il personaggio di Alina, a suo agio tra due culture al punto da conoscere i limiti e i pregiudizi di entrambe, invece, per sua stessa ammissione, Peter Marcias è più simile al personaggio interpretato da Salvatore Cantalupo, non avendo mai messo piede in un campo rom prima dell'inizio di questa avventura cinematografica.
In fondo, però, il discorso del film è molto più in generale un discorso sul grande tema del nostro tempo, quell'integrazione che l'etica auspica e la realtà allontana. Con Dimmi che destino avrò Marcias trasforma letteralmente il messaggio in mezzo, realizzando l'integrazione a livello della costruzione filmica, ovvero ibridando finzione e realtà. Anziché, però, mutuare il procedimento della docufiction, che integra i documenti relativi al reale con delle ricostruzioni inventate ad hoc, qui accade l'inverso: è la realtà a supplire e completare la finzione. Dopo una partenza quasi di genere, che potrebbe tranquillamente essere l'ingresso di un giallo, l'oggetto dell'indagine si allarga dalla persona del ricercato ad un mondo intero e subisce una nuova e speculare trasformazione quando il poliziotto entra nella baracca della famiglia di Alina -che è una vera famiglia di nomadi- e finisce per diventare lui stesso l'oggetto della diffidenza e della curiosità dei presenti.
Il movimento che dalla finzione narrativa man mano procede verso un'immersione sempre più profonda nella realtà, fino a confondere i fattori (in una sorta di scambio finale ideale tra le figure di Alina e del commissario), è l'esperienza emotivamente più interessante che il film regala allo spettatore, oltre che la dimostrazione che il metodo usato dal regista per portare la vita nel cinema (e viceversa) è una strada ancora poco frequentata che può dare invece dei bei risultati.
Pur con qualche imperfezione e ingenuità (ci si chiede, per esempio, se c'era davvero bisogno della storia privata del commissario per insistere sul tema dell'accettazione della diversità), Dimmi che destino avrò
è un film nel quale si respira una salubre aria di libertà creativa e si applaude alla prova di una giovane grande attrice quale è Luli Bitri.